I fumettisti e la moda, due mondi tanto diversi?
- Tutto è iniziato dal gioco Gira la moda
- Il mio percorso differente all’Accademia di Belle Arti di Bologna
- L’importanza di vestire una divisa
- Fumettisti fashionisti
- Fumettisti e brand
Da piccola, quando ho iniziato a disegnare e a usare il mio primo Gira la moda, ero convinta di voler fare la stilista.
Chi di noi nati e nate negli anni ’80 non ha avuto in casa, o sua o di qualche amichett*, questo oggetto? Era divertente, si, ma anche molto limitante a dir la verità. Mi è tornato in mente questo gioco proprio in questi giorni in cui inizia la Milano Fashion Week 2020.
Mi affascinava il poter creare personaggi, sceglierne i vestiti, ma mi ossessionava non poterli muovere o scegliere le espressioni facciali. Fino ai 13 anni dicevo di voler fare la stilista e frequentare una scuola di moda. Ma l’ossessione per quegli sguardi vuoti e del non poterli cambiare, se non passando una mano di bianchetto per poi disegnare i volti che volevo io, mi fece un po’ cambiare idea. Durante la mia tarda infanzia-pre adolescenza poi ho scoperto i fumetti dove di espressioni ce n’erano tante. I figurini oltre a essere vestiti benissimo si muovevano e facevano delle cose che mi lasciavano di stucco! Presto sugli scaffali della fumetteria di Montesanto notai un fumetto pazzesco, che mi sconvolse completamente per la bellezza, se volete anche sgraziata e del tutto sproporzionata, dei disegni e dei vestiti! Questo nuovo albo univa la mia primordiale passione della moda a quella del racconto, incredibile!
Così a 13 anni iniziai a leggere “Cortili del cuore” della mankaga Ai Yazawa. Grazie a lei ho capito che io volevo fare quei personaggi lì, vestirli, muoverli, emozionarli, insomma raccontare storie non soltanto disegnare figurini.
Ogni fumetto nuovo che usciva di Ai Yazawa io lo compravo. Cortili del cuore, Paradise Kiss (spin-of di Cortili del cuore), Nana. Ogni albo trasudava moda, passione per il design e piacere nel disegnare abiti. I fumetti di Ai, sopratutto Nana, non sarebbero stati gli stessi senza l’influenza di Vivianne Westood sulla disegnatrice giapponese. Ma questo l’avrei scoperto solo alcuni anni dopo! Ed eccola ancora la moda che ritornava a bomba nella mia vita adolescenziale attraverso il fumetto.
Ancora prima di conoscere i fumetti di Ai Yazawa un’altra mia grande passione sono stati i fumetti e i cartoni animati di Sailor Moon. Solo anni dopo ho scoperto che la sua creatrice Naoko Takeuchi, grande appassionata di moda, si è ispirata tantissimo ad alcuni pezzi iconici della moda per vestire i suoi personaggi più famosi.
Durante tutta l’adolescenza non ho fatto altro che disegnare i miei personaggi in stile cyber-punk, punkabbestia, freak alternativi, ispirata molto da quello che leggevo e dal contesto alternativo che frequentavo.
Poi Ai Yazawa è scomparsa, non pubblica cose nuove da tempo. Io sono pure cresciuta e ho smesso di vestirmi punk. Per fortuna è stata pubblicata da poco questa mega raccolta di Paradise Kiss così da far riscoprire la meravigliosa arte di Ai Yazawa anche alle nuove generazioni.
Presto capì che il fumetto per me avrebbe sempre fatto da ponte verso la conoscenza e la scoperta di altro.
Dopo il liceo sono andata a studiare a Bologna, all’Accademia di Belle Arti, non proprio una scuola di design e moda come in Cortili del cuore, ma ci si avvicinava abbastanza. Durante i corsi ho scoperto tanti fumetti e fumettisti che non conoscevo. Come il lavoro del disegnatore canadese SETH (pubblicato in Italia da Coconino Press). Il suo stile, sia grafico che estetico, mi colpì subito. Potrebbe essere stato fotografato tranquillamente anche da Scott Schuman di The Sartorialist. Da quando ho iniziato a leggere i suoi fumetti, ma anche quelli di Igort, iniziai a ricercare un mio stile più sobrio e ordinato.
Cercavo di ordinare la vita sulla pagina per riuscire, per osmosi, a fare ordine nella mia.
Cercavo un mio personale stile. Stile grafico e stile nel vestire. Non avevo tanti soldi e Zalando e Amazon erano ancora lontani, potevo permettermi solo qualche pezzo H&M (ok non era ancora uscito il documentario True Cost) e finte Birkenstock (che ora sono diventate di modissima) quindi non spendevo mai troppi soldi per vestirmi e gli abbinamenti andavano un po’ a caso anche se con un minimo di gusto personale che già tendevo a sviluppare guardando le cose che mi piacevano (Anche Muji ha fatto la sua parte in questo processo!). Entrai poi in un loop per cui dovevo vestirmi come volevo si vestissero i personaggi dei miei fumetti, in uno stile minimale e raffinato ma senza avere a disposizione Instagram o Pinterest. Insomma era tutto nella mia testa e secondo mio personale gusto. Si a 20 anni ti è concesso farti questi strani trip, anzi bisogna farseli!
Ricordo che i miei anni universitari, dunque, trascorsero alla ricerca forsennata di uno stile, non soltanto grafico per le storie che volevo raccontare ma anche e sopratutto nell’immagine che volevo dare di me all’esterno che corrispondesse il più possibile ai miei fumetti, chiaramente.
Ricordo il periodo in cui ho rinnegato il mio colore preferito, il rosa, vestendomi soltanto di nero e pochi altri colori scuri, smorti, noiosi. La mia parola d’ordine era sobrietà. Anche se mostravo evidenti segni di insofferenza a questa imposizione autoinflitta.
Seguendo diversi workshop con un altro disegnatore (Stefano Ricci) capì che gli abiti che portiamo possono essere delle divise, indipendentemente da ciò che disegnamo. Infatti Stefano durante i workshop portava ogni giorno la stessa giacca e lo stesso pantalone di un colore sobrio ma eccentrico a modo suo: il Bordeaux. Magari aveva dei ricambi dello stesso colore e dei modelli uguali ma ai miei occhi di sbarbatela sembrava lo stesso, sempre. Questo fatto dell’avere “una divisa” l’ho messo in pratica io stessa durante le presentazioni e i workshop, negli anni successivi. Infatti la mia vita è cambiata da quando ho scoperto Uniqlo a Parigi durante l’erasmus.
Avere delle divise comode, magari anche leggermente diverse, ma che ti fanno stare a tuo agio e ti caratterizzano senza dover pensare troppo a come vestirti ogni giorno è l’ideale.
A questo ho pensato quando ho seguito le esibizioni di Levante all’ultimo festival di Sanremo:”Che belle divise! Brava Levante”. Ho avuto riscontro dell’importanza delle divise anche nell’ultimo numero della newsletter di Federica Salto, a cui vi consiglio di iscrivervi, in cui parla proprio di come fare a cercare un proprio stile e degli abbinamenti buoni per voi in cui sentirsi bene. Recentemente sono arrivata, seguendo la bravissima Giulia Torelli aka Rock’n’fiocc (grazie alla quale ho imparato a leggere meglio le etichette dei vestiti, la mia pelle ipersensibile ringrazia), sul canale YouTube di Andrea Batilla che ha intervistato Marco De Vincenzo. Marco è proprio il designer dei vestiti che tanto mi sono piaciuti della cantante torinese e durante l’intervista ha confessato che un’altra sua grande passione, che poi ha abbandonato a favore del fashion, erano proprio i fumetti! Mi è nata spontanea una domanda, forse un po’ scema:
Se chi voleva fare fumetti poi è diventato uno stilista, chi i fumetti li fa, ora, come si veste? E che rapporto ha con la moda? Con se stesso come corpo che può esprimersi oltre i disegni?
Su questo tema mi tornano sempre in mente delle foto che ho visto un po’ di tempo fa in cui sono ritratti alcuni fumettisti famosi della scena italiana tra gli anni ’70 e ’80 sul blog di Massimo Giacon.
Fumettisti fashionisti
Ci dedicò un articolo anche il portale di fumetti lo Spazio Bianco. In queste foto (Oltre al dio Andrea Pazienza e al bravissimo Giancarlo ELFO Ascari e lo stesso Giacon erano fotografati alcuni degli esponenti del gruppo Valvoline Motorcomics come Giorgio Carpinteri, Igort, Marcello Jori e Lorenzo Mattotti.
A febbraio 2014 si sono festeggiati i 30 anni del gruppo Valvoline in una mostra alla Fondazione Del Monte di Bologna (il cui catalogo si può ancora comprare online e in libreria) e, tra i vari articoli che ne hanno parlato, si elogiava la sperimentazione che questi artisti portavano avanti con le loro opere e loro stessi, surfando e muovendosi tra vari settori e ambienti disciplinari come, appunto, la moda (D.repubblica)
Questi fumettisti, ormai diventati grandi artisti affermati, alcuni ancora sulla cresta dell’onda mentre altri dimenticati o che non fanno più fumetti, hanno anche firmato un numero speciale de La Lettura del 19 luglio 2018 e disegnato illustrazioni per Vanity (rivista creata da Anna Piaggi)
Insomma se nel 1984 un manipolo di fumettisti furono invitati a posare per dei brand su una rivista di moda oggi com’è la situazione?
Oggi le riflessioni da fare sono molteplici. Parafrasando un passaggio del libro di Paolo Iabichino Scripta Volant si potrebbe dire che:
“Se prima le marche si servivano dei personaggi rendendoli testimonial un po’ usa e getta, un po’ per dire “Ehy giovani che leggete fumetti guardate qui! Comprate questi vestiti che mettono i giovani come voi che i fumetti li fanno!”. Adesso gli stessi fumettisti, pur posando con addosso delle marche si fanno portatori dei valori che il marchio trasmette”
Parafrasi libera
Io uso la parola fumettisti ma è come se sottintendessi anche scrittori, registi o musicisti, influencer. Applico lo stesso discorso e le stesse analisi, e si potrebbero applicare le stesse logiche, fatte per il caso Gucci che ha vestito Achille Lauro allo scorso festival di Sanremo. Anche il fumetto, come tutte le altre arti che questo paese accoglie e produce, fa parte della “cultura” italiana e io come tale lo percepisco.
Per cui non c’è nulla di strano nelle contaminazioni, nel dialogo e nell’apertura dimostrata 30 anni fa dai fumettisti fotografati per Vanity e oggi anche da Giulia “Zuzu” Spagnulo, autrice che sul rapporto con il proprio corpo ci ha scritto il graphic novel CHEESE. Giulia, che ho sempre notato in giro per fiere, si distingue per il suo look assolutamente eccentrico e personalissimo che io, personalmente, adoro. Sono davvero pochi gli autori e le autrici che noto per la cura che mettono nell’esporsi in pubblico.
Sogno un brand tutto italiano che fotografi non solo modelli ma anche artisti, attivisti e creativi come ha fatto COS rendendoli protagonisti della nuova collezione fotografati da Jack Davison.
Il brand Fantabody è uno dei pochi che ci riesce. Infatti Zuzu ha posato recentemente per un servizio fotografico su Vogue, fotografata da Maria Clara Macrì, dove indossa un body del brand Fantabody. Un marchio sustainable, bodypositive e made in Italy tutti valori che incarna anche la nostra bravissima fumettista con cui ho chiacchierato durante la quarantena sul mio canale YouTube. A proposito della sostenibilità della moda: io attualmente preferisco avere e comprare pochissimi vestiti, sostenibili, di alta qualità così che possano durare nel tempo, voi? Poi se riuscissi ad avere qualcosa con i tessuti con il design di Silvia Stella sarebbe top!
Penso che sia nelle storie che si disegnano sia per come ci si veste non si può prescindere da un approccio politico.
Insomma di esempi ce ne sarebbero ancora tanti, per non parlare poi del rapporto tra moda e illustrazione (a cui penso di dedicare un altro articolo più avanti). Vorrei solo far emergere quanto, in un mestiere creativo, siano importanti le influenze, le contaminazioni e un approccio multidisciplinare più aperto e inclusivo possibile.
Grazie per essere arrivat* fin qui.
Angela
Che articolo interessantissimo Cristina, adesso mi metto buonina e mi leggo un po’ alla volta tutto il tuo sito!
cristinaportolano
Ciao Angela! Sono contenta che ti sia piaciuto, sono onorata!